19950818 - 18 agosto
Discorso Divino di Bhagavan Sri Sathya Sai Baba
Incarnazioni dell’Amore,
Non c’è disciplina più grande della pace. La pace è il caposaldo dei valori umani, aggiunge una bellezza autentica al carattere dei grandi saggi, mostra la grandezza della divinità. Tyagaraja cantò che senza pace non esiste felicità.
Come essere felici
Non c’è niente che si possa paragonare alla felicità. L’uomo vuol essere felice e desidera varie forme di piacere, ma non c’è felicità più grande della pace e non c’è paradiso più grande della propria felicità. L’uomo oggi è legato e trascinato da tanti desideri, che sono la causa di malattie. Bisognerebbe porre un limite ai desideri. Oggi è stato superato il livello di guardia; perciò anche le malattie sono in aumento. Il desiderio produce agitazione mentale, la quale sfocia in disturbi psichici. Andrebbero dunque compiuti degli sforzi per porre un tetto ai propri desideri.
La compassione (dayâ) è rettitudine (dharma) e non c’è miglior retta azione della compassione. Un cuore pieno di compassione è il tempio di Dio; tutti dovrebbero saperlo ed avere quindi un cuore compassionevole.
Ogni lettera è un mantra; ogni pianta ha un potere medicinale; così, ogni essere umano ha un suo valore e la persona che sa discernere questa verità è un autentico essere umano. Oggigiorno non si tengono nella dovuta considerazione il valore dell’uomo e quello del tempo.
(Swami canta):
Tutta la giornata passa fra lavori e faccende varie.
La vita consiste forse nel riempirsi lo stomaco tre volte al giorno?
Pensi che non esista una vita migliore di questa?
Credi che unico scopo della vita
sia trovar piacere in una solenne dormita?
Tutto il senso della vita si riduce
a pettegolezzi e stupide chiacchiere?
È forse questo lo scopo per cui Dio ci ha dato la vita?
Ti par giusto trascorrere la vita senza badare
a meriti e peccati, al bene e al male?
Almeno ora cerca di condurre una vita da uomo.
Un potere invisibile
Il mondo intero è creazione di Dio ed è estremamente potente. La manifestazione di questa potenza non si limita al tempo ed allo spazio, esiste dappertutto; ma l’uomo non la sa vedere, anzi, crede addirittura che non esista. Siccome il potere non si vede, egli lo misconosce. L’elettricità è presente dovunque nel filo, ma la luce si vede solo quand’essa raggiunge la lampadina. Anche se l’elettricità è dappertutto, la sua luce si rende visibile solo quando si accendono le lampadine. Allo stesso modo, sebbene Dio sia dappertutto, la Sua potenza e la Sua gloria si manifestano solo in coloro i cui cuori sono puri e le cui menti sono assorte in Dio.
Progetto di vita
L’uomo oggi non sa cosa sia la vita. Qual è lo scopo della vita? Quale la meta, il fine? Quale il suo dovere? Il tempo scorre come un turbine e la porzione di vita destinata a ciascuno si va sciogliendo di momento in momento, come ghiaccio. L’uomo però chiude gli occhi prima di aver riconosciuto il suo dovere. In che consiste questo dovere? Ad ogni individuo spettano certi scopi, certe mete e aspirazioni, certi sacri sentieri, ma l’uomo non fa alcun sforzo in questa direzione, non si ferma per fare indagini sulla scopo della vita, non si interroga sui suoi segreti o sui doveri verso di essa. Non c’è uomo che ponga innanzi a sé stesso o ad altri questo dubbio. Trova soddisfazione nel mangiare e nel dormire, e la sua vita è circoscritta entro i confini dei beni patrimoniali e dei piaceri.
Ma non è questo il fine della vita, né il dovere del genere umano. Ogni persona dovrebbe esprimere l’ideale divino e, invece di variare i suoi ideali, dovrebbe impegnare ogni sforzo nel raggiungerli. Il sentiero della santità non viene battuto dall’uomo d’oggi.
Ogni cosa trova sostegno dal pensiero dell’uomo e tutti i pensieri sono finalizzati a riflettersi esteriormente. Si chiama “riflesso dell’essere interiore”. Quando, ad esempio, costruiamo una casa, ne progettiamo l’orientamento, l’esatta disposizione delle camere da letto, della cucina, ecc. Il progetto viene messo sulla carta; perciò, la casa, prima di essere riflessa nella realtà, ha una forma mentale. Un altro piccolo esempio. Prima di metterti a scrivere una lettera, ne hai deciso mentalmente il contenuto e la struttura; poi incominci a scriverla.
Dal pensiero l’azione
Dunque, per prima cosa viene il pensiero (sankalpa); in secondo luogo viene l’azione (âcharna). Il pensiero conduce all’azione. Senza pensiero non può esserci azione. Perciò, occorre coltivare pensieri divini. Ogni persona deve rendersi conto che i suoi problemi, le sue preoccupazioni, ansie, angosce, sofferenze hanno radice nei suoi stessi pensieri. Voi credete che qualcun altro sia responsabile del vostro dolore, che ci sia qualcuno di esterno a voi a provocarvi insuccessi e sventure, ma non è vero. Voi, e nessun altro, siete responsabili del vostro stesso dolore e delle vostre sfortune. La vostra fragilità vi induce a biasimare altri e a voler infierire contro di loro o a danneggiarli. Ognuno deve essere conscio della verità fondamentale che il bene e il male dipendono da lui stesso.
Tale è l’esperienza quale è il sentimento. La Kenopanishad lo spiega molto chiaramente, quando afferma: «Il conoscitore del Brahman diviene il Brahman stesso». Come dire che si diventa ciò che si pensa, ciò a cui si aspira e che si vuol essere. Vâlmîki, il compositore del Râmâyana, pensava incessantemente alle nobili qualità ed agli attributi del Signore Râma. Nella sua mente si era infusa la forma di Râma e questa continua contemplazione lo riempì delle qualità, del fulgore e dei sentimenti di Râma.
Lo splendore di Dio si manifestò in Ratnakar (precedente nome di Vâlmîki, NdT), ladro e brigante di professione. Non è altro che un miracolo di Râma. Perciò, quando contemplate il fulgore di Dio, una parte di esso entra in voi. In ogni momento e circostanza Prahlâda amava Dio. Aveva sempre in mente Hari e sviluppò una vicinanza intima e profonda con Dio. Credeva pienamente che non ci fosse altro all’infuori del Signore, e fu così che rimase intrepido nella estreme circostanze della tortura, sperimentando solamente la pura e divina beatitudine. Non sentì fame, né fatica, né dolore, e fu questa la ragione per cui i suoi insegnanti demoni, Chanda e Amarka, dissero al re: «Sire, sebbene aggredito dai demoni, Prahlâda ha continuato a cantare il nome di Hari. Non ha mostrato la benché minima paura. Sul suo volto di tenerezza vibrava lo splendore di Vishnu». E ciò corrisponde al principio del «come pensi, così diventi».
Porzioni di Dio
L’uomo è una scintilla, una porzione dell’eterno Divino. «Stolto! Tu non sei una parte dei cinque elementi; sei una Mia porzione», dice Krishna nella Bhagavad Gîtâ. Il ramo è una parte dell’albero; il bimbo una parte della madre. Non ci sono rami senz’albero, né figli senza madre. L’uomo è una parte di Mâdhava, del Signore. Senza Dio l’uomo non può vivere. Eppure vediamo degli uomini che vivono facendo a meno di Dio. Vivono, sì, ma come? Vivono da animali, non da esseri umani.
Perché hai delle preoccupazioni, se sei una scintilla della Divinità? Perché soffri? Può forse Iddio aver preoccupazioni e problemi? No. Dio è sempre felice. Sempre. Egli è eternamente in beatitudine. Se dunque sei una parte di Dio, neanche tu dovresti soffrire. Se fai un’analisi, ti renderai conto che non stai vivendo come dovresti, cioè come una scintilla del Divino.
È una verità riconoscibile anche dagli stranieri. La Bibbia dice che Dio è onnipotente e onnipresente, e Mosè fu un uomo che contemplava in ogni momento Dio; perciò emanava raggi di divina effulgenza. Anche Gesù era solito dire al Padre suo: «Tu ed io siamo una sola cosa». Egli si sentiva identico a Dio.
Un altro, uno scienziato, ebbe un cuore santo e una nobile condotta. Era continuamente alla ricerca della verità; pensava a Dio e ne rifletteva lo splendore. Il costante pensiero della Divinità fa essere divini. Questo scienziato seguì incondizionatamente il suo maestro, che si chiamava Henslow, con una intensità tale che divenne come lui. Oggi si insegue col pensiero gente diversa ad ogni piè sospinto e si conduce una vita dissennata. Noi dobbiamo condurre una vita santa, per il fatto stesso di esser venuti al mondo e aver saputo che siamo una parte del Divino.
La perfezione è di Dio
Antonio (Stradivari) fu un esperto violinista italiano. I suoi violini erano inestimabili. Perché? Perché, prima di suonare lo strumento, impiegava un anno o più nel perfezionarlo. Un amico suo un giorno gli chiese: «Antonio, come vivi se ci metti tanto tempo a fabbricare un violino? Dovrai anche occuparti delle cose concrete che riserva la vita quotidiana. Non puoi andare avanti e mantenerti con un violino all’anno».
E Antonio rispose: «Dio è perfetto e completo. È per Lui che un violino dev’essere fatto perfettamente. Se non mi sforzo di ottenere completezza e pienezza, tradisco Dio».
Il cuore di Dio è assolutamente pieno: Egli è la perfezione stessa e, per darGli soddisfazione, tutti i nostri pensieri, parole ed azioni devono essere pieni e perfetti. L’arduo impegno per la perfezione è la ragione per cui molti che vivono in Occidente hanno raggiunto il successo. Dal momento che Dio è totalità, ossia pienezza, se il nostro sforzo è un quarto, metà o tre quarti, noi non avremo pieno successo. Occorre che abbiamo pienezza anche in quello sforzo. Solo allora possiamo raggiungere Dio o ricevere da Lui gli elogi. Il nostro sforzo dev’essere totale, sia esso nel pensiero, nella parola o nell’azione.
C’è una gran quantità di acqua nel mare, ma se ne metti anche solo una goccia nella mano, ne sentirai il sapore di sale. La qualità rimane la stessa, anche se è diversa la quantità. Allo stesso modo, l’Amore divino, che è la sostanza di Dio, dovrebbe traboccare in noi. E poiché è perfetto in assoluto, dobbiamo compiere il massimo sforzo per la completa perfezione. Tutto quanto esce dalla nostra bocca dovrebbe corrispondere al cento per cento a verità. Le nostre azioni pure dovrebbero recare questa impronta di perfezione. Tutti i nostri pensieri vanno considerati di origine divina, e ciò perché è Lui che risiede interiormente. Tutto quanto diciamo, proviene da Lui, non da noi; Egli non è che il destinatario, colui che risiede dentro, ed è per questo che si dice di offrire tutto a Lui.
Diciamo Krishnârpana (dedizione a Krishna), ma si tratta in effetti di trishnârpana (dedizione ai desideri): si sacrifica tutto al desiderio, anziché al Signore. Si dice una cosa e se ne fa un’altra, ed è questo il motivo per cui non si riesce a liberarsi dalla sofferenza e a sperimentare la gioia assoluta, l’ânanda. Ciò è un ostacolo al perseguimento delle mete più ambite e all’esperienza della verità. Otterremo successo solo il giorno in cui aspireremo alla perfezione. In caso contrario le cose andranno avanti come sempre.
Ai tempi di Krishna
Le gopika d’un tempo possedevano questa perfezione, questa completezza; non volevano niente e rifiutarono persino il messaggio del grande saggio Uddhava, dicendogli: «Uddhava, i nostri occhi continuano ad esser pieni della dolce immagine di Krishna; sulle nostre lingue danza il Suo nome; le nostre menti sono immerse nella divina dolcezza del nostro Signore. La melodia del Suo flauto risuona nelle nostre orecchie. A che ci servono i tuoi folli messaggi? Noi non ne abbiamo bisogno». Le gopî avevano una fede piena e assoluta e sperimentarono dovunque l’unione col Signore.
Krishna aveva sei anni quando giocava con le gopika. Ma, sfortunatamente molti, anche fra gli Indiani, non intendono nel senso giusto il fatto e nutrono concezioni errate sul comportamento di Krishna nei confronti delle gopî. I loro giochi erano come quelli fra sorelle; il loro rapporto con Krishna era come quello di una madre con suo figlio; fra loro c’era un legame fraterno. Krishna trotterellava con loro, conquistandone il cuore. Che fece per cambiarle? Conquistò il loro amore e modificò i loro cuori.
Oggigiorno l’uomo può cambiare, ma non la sua mente. A che pro, allora? Non basta cambiare abito o aspetto; è la vostra stessa natura che deve cambiare. Uomo vuol dire mente, e mente vuol dire pensiero (sankalpa); per cui, la prima cosa che dovreste fare è cambiare e purificare i vostri pensieri. Oggi, tutti i vostri pensieri sono interessati e pieni di egoismo.
Quando Krishna non era a Brindâvan, le gopî Lo vedevano in ogni cosa; non vedevano mai un albero come albero, o un rampicante, o dei fiori come tali. Non ci vedevano altro che Krishna. Non stavano a considerare se l’albero avesse occhi, orecchi o lingua; lo vedevano solo come una bellissima creatura di Dio. Ritenevano che anche i fiori parlassero, vedessero o udissero. Era questa la fede che esse avevano. Incapaci di sopportare la separazione da Krishna, corsero dunque angosciate a Brindâvan. Andavano chiedendo in giro: «Quel moretto dagli occhi di loto, così indulgente, ci ha rubato il cuore! O gelsomini cari, si sta forse nascondendo tra i vostri arbusti?».
Che ansia e che dolce pena sperimentarono! Riversavano tutte le loro domande sui cespugli e sugli alberi che non possono rispondere. Noi abbiamo tanti nomi e tante forme, ma le gopika avevano un solo nome, una sola forma: Krishna. Solo Lui vedevano, solo in Lui credevano.
L’unione dell’amore
Dovremmo essere come Darwin. Egli fu discepolo di Henslow e pensava costantemente al suo guru. Stava a guardare perfino la strada percorsa dal maestro e teneva in grande considerazione ogni sua parola. Erano un cuor solo e un’anima sola, ed erano così intimamente uniti che, quand’erano insieme, la gente a malapena riusciva a distinguerli l’uno dall’altro.
Gli agnostici e gli atei non possono capire questo fenomeno. Può forse un maiale, abituato solo al fango e alle pozzanghere, capire la fragranza di un’essenza? Così, chi può capire un amore puro, dolce e disinteressato? Può un cieco rivolto al Sole riconoscerlo? Quando Hânûman penetrò a Lanka e vi appiccò fuoco, l’isola ardeva a tal punto che pareva fosse giorno; ma, per quanta luce ci fosse, il cuore di Râvana rimase profondamente nelle tenebre. Così, solo chi è pieno d’amore è in grado di diffondere amore, luce e chiarore.
Le discussioni sono proprie di chi è privo d’amore e l’ostilità cresce proprio a causa delle discussioni. Ecco perché le gopî non entrarono mai in conflitto con Krishna, o, se accadde, fu solo un battibecco d’amore, non di contrasti. L’Âvatâr Krishna diffuse il messaggio dell’amore. L’amore non cambia in base alle epoche, non segue i movimenti della mente, non si altera per il mondo: è l’eterna verità che mai muta ed è sempre pura.
Il genere umano oggi è simile a nettare versato in un vaso di terracotta. Il contenitore può essere di coccio, ma contiene sempre del nettare. Se si versasse del veleno in un vaso d’oro, questo ne subirebbe corrosione. Solo degli stolti vorrebbero un vaso d’oro che contenesse veleno. Il corpo umano è composto di materia, ma in questo vaso di argilla abita il Divino. Dovremmo chiedere la forma umana, perché è solo questa forma che può passare alla Divinità. La vita umana dunque non va considerata come qualcosa di ignobile. La vita serve a vivere, ad amare, a credere; essa è preziosissima. Non dovreste svilirla o vanificarla. Si svende la vita umana, così preziosa, per un nonnulla. Non si dovrebbe mai giungere a tanto. Dovremmo renderci conto del valore del nascere come uomini, e tuttavia dobbiamo tornare alla nostra origine.
Ritorno all’Origine
Qual è il nostro dovere? È raggiungere la nostra dimora originale. C’è molta gente ora qui. Da dove proviene? Alcuni da Madras, altri da Bombay, altri dall’Italia, altri ancora dall’Andhra. Ma, per quanto tempo vi rimanete? Dovrete far ritorno alle vostre sedi; non potete esimervi da ciò. Così pure il vostro soggiorno sulla Terra è temporaneo; su questo pianeta siete pellegrini, e dovrete far ritorno alla vostra origine. Molti pregano Swami dicendo: «Swami, mostrami una via d’uscita, un sentiero da seguire». Ma che debbo mostrarvi? Basterebbe che nella vita tornaste da dove siete venuti. Tornate là donde siete nati. Perché dovreste aver bisogno di una strada nuova? Ecco la ragione per cui dovete saper individuare la vostra fonte. Dall’Âtma siete venuti; là tornate. Da Brahma siete venuti; è Brahma che dovete nuovamente raggiungere. Questo dovrebbe essere il vostro obiettivo principale, il fine della vostra vita. Non fate caso ai numerosi alti e bassi che si presentano sul vostro cammino; mantenete una fede incrollabile e ferma.
Questa è devozione autentica. I rituali, la pûjâ o i bhajan non indicano devozione, sono soltanto buone azioni. Bhakti significa il dono di un amore puro, immacolato al nostro Signore. Quando veniste sulla Terra, giungeste con quell’amore puro. Con la forza di quell’amore dovete risalire alla vostra origine. È una forza che non è patrimonio dei vostri genitori o dei vostri nonni; è un bene che spetta come proprietà all’incarnazione stessa dell’Amore, cioè di Dio. È indice di attaccamento e di possessività il credere che qualcun altro vi appartenga; quindi, finché permane il mamatva, il senso di proprietà e di possesso, non può esserci l’âtmatatva, non è possibile capire la natura dello Spirito.
Sobrietà nel desiderio
Il senso dell’attaccamento e del possesso sono l’unica causa di tutta la sofferenza. È necessario che ci sia un po’ di attaccamento e di possessività, ma devono rientrare entro certi limiti. Se avete sete e vi serve un bicchier d’acqua, perché dovreste cercare il Gange intero per sedare la vostra sete? È un desiderio smoderato. Bastano pochi bocconi a saziare la vostra fame; perché dunque voler dieci sacchi di riso? Sei poi sicuro di avere sufficiente vita per consumarli tutti? È indispensabile porsi dei limiti; desideri a non finire e sfrenati sono causa di inquietudine, tolgono la pace.
Le gopî erano appagate del loro modo di vivere; non avevano desideri insignificanti, ne avevano uno solo: Dio. Volevano tornare alla loro origine e raggiungere Colui che era la loro vita. Questa fu il loro obiettivo. L’insegnamento impartito loro è lo stesso ancor oggi, ma a volte siamo vittime dell’illusione.
L’illusione del corpo
Il ragazzo che oggi ha parlato per secondo ha fatto accenno all’illusione definendola potentissima al punto da esser difficile rimanerne indenni… Quando ci si identifica col proprio corpo, il senso del corpo ti entra dentro. Una volta Brahmâ provocò una pioggia torrenziale sulla Terra per dimostrare agli uomini la gloria e la potenza divine. Gli abitanti del villaggio di Krishna non poterono far fronte alla furia di quel rovescio e si adunarono vicino a Lui. E Krishna sollevò il monte Govardhana per proteggerli.
L’illusione (mâyâ) si insinuò nella mente delle gopî, le quali si domandavano: «Krishna non è che un ragazzo e la montagna è così enorme. Per quanto tempo Gli riuscirà di tenerla sollevata?». Dubitando dunque di Lui, corsero a rifugiarsi da un’altra parte. In ogni yuga ci son sempre dei Tommasi increduli. Non siate uno di loro: una volta che si è ottenuta la fede, bisogna mantenerla sino alla morte; non bisogna lasciarsi scuotere dagli alti e bassi. Una fede vacillante fa male a noi, non agli altri. La fede in Dio dovrebbe essere il vostro alito di vita. Quello è amore vero.
Il Dharma: missione degli Âvatâr
O incarnazioni dell’amore, noi continuiamo a celebrare i compleanni delle Divinità incarnate. Qual è il profondo significato di questa usanza? Dietro ogni incarnazione c’è un ideale o un principio morale. Ogni Âvatâr viene al mondo per ristabilire la giustizia, il Dharma. Noi pensiamo che Dharma stia ad indicare i differenti stadi della vita: il Brahmachârya o lo stadio del discepolo, il Grihastha o il padre di famiglia, il Vânaprastha o il distacco da ogni legame sociale e il Sannyâsa o lo stadio del rinunciante. Non è questo il vero dharma. Questi sono solamente degli stadi nella vita, i cosiddetti âshrama, ma non sono dharma.
Il dharma consiste in tre cose: corpo, mente e parola. Il corpo implica azione, la mente il pensiero e la parola il mondo. L’unità di pensiero, parola ed azione è dharma. Questo è quanto significa la frase «Il vero studio dell’umanità è l’uomo»: unità di pensiero, parola e azione.
È una verità immutabile, indipendentemente dalla nazione, dal clan, dalla religione e dalla regione a cui si appartiene, è un principio fondamentale a cui non può sottrarsi la gente di ogni epoca e luogo. Benedetti sono coloro che seguono questo sentiero; chi segue la via del Dharma avrà con sé Dio in ogni momento. Dobbiamo nutrire e proteggere un tale dharma. Oggi però si pensa, si parla e si agisce in modi differenti; gli attaccamenti materiali sono in aumento, le discriminazioni fra esseri umani sono profonde, e così si dimentica il proprio dharma e ci si illude.
La Bhagavad Gîtâ fa riferimento a due termini: svadharma e paradharma. Lo svadharma è il dharma dell’Âtma preso in sé stesso; il paradharma è il dharma del corpo. Si continua a perseguire il dharma del corpo, ma quando si comincerà a vivere il livello spirituale, il dharma dell’Âtma? Anche nel Mahâbhârata vediamo un Ârjuna impaziente di entrare in guerra per combattere. Tentò perfino di dissuadere Krishna dal presentarsi come mediatore di pace ai Kaurava. Dal punto di vista materiale la guerra va evitata, in quanto è causa di enormi danni. Perciò Krishna tentò di cambiare la proposta di guerra. A quel punto, Ârjuna cadde ai Suoi piedi e disse: «O Krishna, perché questa missione di pace? Non serve a niente: basta con la tolleranza! Est e Ovest non si incontreranno mai. Perché perder tempo in discussioni? Di’ loro che noi siamo pronti a combattere. Quelle teste dure dei Kaurava non arriveranno mai a un accordo. Prepariamoci alla guerra».
Ma, sul campo di battaglia, proprio prima che la guerra avesse inizio, al vedere i suoi parenti schierati davanti a sé e disposti al combattimento, Ârjuna, assalito dall’attaccamento e dal rimorso, si perse d’animo. Lasciò cadere il gândîva, l’arco, si volse verso Krishna e disse: «Krishna, fermiamo la guerra. Che ci guadagno ad uccidere i miei cari? Io non voglio niente. Mi ritiro». Questa sua retrocessione e codardia proveniva dagli attaccamenti fisici. Perciò il corpo è causa dei legami dell’uomo. Diversi possono essere i corpi, ma unico è lo Spirito. La conoscenza di queste verità più elevate è svadharma, mentre seguire il corpo è paradharma.
L’illusione acceca, l’amore illumina.
Del corpo bisogna pur prendersi cura, ma non bisogna attribuirgli eccessiva importanza. Dovreste abbandonarvi a Dio: a Lui dovreste abbandonare corpo, mente, famiglia e proprietà. Dovete credere che Io sono in voi e voi in Me, che i corpi sono differenti, ma Dio è uno solo; è a questo fine che dovete compiere sforzi.
Anche Yashodâ rimaneva solitamente illusa sulla divinità di Krishna. Ebbe la visione dei mondi nella Sua bocca e ogni giorno era testimone di molti Suoi miracoli, ma l’illusione persisteva. Ciò dipendeva dal suo attaccamento fisico. Una volta chiese a Krishna: «Non mangi mai quel che ti preparo, ma vai nelle case dei vicini a rubare un pugno di burro. È una cosa che sta creando un sacco di malintesi; stai provocando la reazione di tutto il villaggio con tutte le tue birichinate». E, così dicendo, Lo legò ad un albero.
Queste burle di Krishna avevano un’importante lezione da dare ai devoti: stavano a dimostrare che in ognuno c’è il potere trascendentale, ma che si manifesta solo in coloro che sanno viverlo. La divinità si manifesta a seconda dell’intensità della fede. Per una vita di luce e di pienezza, l’amore è l’unica via. Perciò, potete raggiungere Dio solo attraverso l’amore. L’odio, l’invidia o l’orgoglio non possono far avere Dio. Sono questi sentimenti che fan diventare le facce sbattute come olio di ricino.
Guardate come splendono di amore divino i volti di Dhruva (giovane realizzato elevato alla posizione di Stella Polare, NdR), di Nârâda o di qualunque altro che sia perso in Dio. Non deve avere dolori o ansie chi ama veramente Dio; anzi, dovrebbe sprizzar fuoco. Era questo lo stato del saggio Vâlmîki: il suo volto era pieno di fulgida luce. Come acquisire questo fuoco? Quando ami l’Incarnazione stessa dell’amore, sei pieno della Sua luce e del Suo splendore. Dovremmo coltivare questo fuoco divino e questa gioia.
Vivere d’amore per Dio
Dovremmo essere immersi in Dio; è questo il dovere primario dell’umanità. Quando lo si dimentica, si rimane implicati in molte attività dirette solo a sbarcare il lunario. Le attività svolte per vivere sono necessarie, ma entro certi limiti, perché non si deve vivere per mangiare.
(Baba canta):
Dov’è tutta questa gran gioia che ricavi dal dedicarti
con tanta cura allo stomaco da mane a sera?
O uomo, pensa a che ti è servito questo gretto modo di vivere.
Hai avuto l’istruzione più alta.
Hai studiato tutti i testi e hai appreso ogni conoscenza.
Perché vai fiero di te stesso e del tuo sapere
mentre tutto ciò è vano se non giungi le mani
per obbedire al Signore Onnipotente?
Puoi possedere gioielli, ricchezza, cultura, fama e reputazione,
ma a che ti serve e per quanto durerà?
Solo fino al termine della tua vita.
Dopo di che dovrai lasciar tutto e andartene.
Questo è quanto insegnava Shankarâchârya cantando “Bhaje Govindam”: «Pensa a Dio, stolto. Tutta la grammatica, la filosofia e la matematica che studi tanto assiduamente non sono di alcuna utilità». Sono studi che servono alla vita materiale e, in definitiva, non serviranno al nostro scopo, perché la loro importanza è limitatissima. Per inseguire queste cose state invece dimenticando ciò che è veramente importante. È quindi inevitabile la fine. Si dice che la durata della vita sia di un centinaio d’anni, ma non credeteci; un uomo può finire la sua vita nell’infanzia, nella giovinezza o a mezza età, e la può perdere in città o nella foresta. Nessuno può davvero dire quando. La morte è certa, ed è perspicace l’uomo che si realizza quando possiede ancora il corpo.
Miseria e valore del corpo
La vita va vissuta, ma senza trascurare la verità, che invece dev’essere conosciuta e rispettata. Un messaggio del genere fu inviato alle gopî per mezzo di Uddhava: «O gopika, il corpo non dura in eterno, è transitorio; è un coacervo di rifiuti, pieno di malattie, un bubbone che cresce, un mucchio d’ossa. È un’imbarcazione instabile con cui attraversare l’oceano della vita. Non pensate che duri per sempre. O mente, consacrati ai Piedi del Signore».
Il corpo, finché l’alito di Dio lo riempie, è pieno di vita, salute, felicità e vigore, ma non appena cessa di respirare, non interessa più a nessuno, incomincia a putrefare e a mandar odore. La freschezza del corpo è il respiro di Dio, e questo respiro divino è Dio, Âtma e consapevolezza. La consapevolezza è onnipresente, per cui non dobbiamo soccombere di fronte a perdite, dolori e dispiaceri. Dobbiamo affrontare coraggiosamente le sfide della vita, senza prestare attenzione ai legami che incontriamo lungo la vita. Questa è la qualità umana ovvero l’umanità: una forza titanica, irriducibilmente giusta, che noi purtroppo dimentichiamo.
Qualunque sia la vostra capacità, cultura o ricchezza, non dimenticate mai Dio. Abbiate sempre fede in Dio. La fede in Dio è la vostra vera posizione nella vita, il vostro destino, la vostra ricchezza e il vostro patrimonio. Tutto ciò è stato dimenticato e la sola cosa di cui ci si ricorda è il fare tutto per sé. È al Sé Supremo che dobbiamo dedicarci, non all’egoismo. L’Âtma è il vero Sé; verità questa che trova espressione nella Gîtâ, e la Bhagavad Gîtâ è destinata al mondo intero.
Il Regista, l’Attore e il “Ciak, si gira”
L’Unico Eterno è il poeta e compositore, l’attore e il regista. Il rapporto tra attore e regista è mâyâ, illusione. In realtà – dobbiamo capire questa verità – attore e regista sono la stessa cosa. Qualsiasi attività facciate, pensate alla pienezza e alla totalità di Dio. Tutte le nostre azioni andrebbero compiute con tutto il cuore, non per forza o perché vi si è costretti, e per compiacere Dio. Dovreste avere l’esperienza dell’azione disinteressata.
L’essenza della Bhagavad Gîtâ è sintetizzata da questa frase: «Il mondo passa ed è pieno di infelicità. Per questa ragione cantate il nome di Dio». Se il mondo fosse la verità, che bisogno avremmo di Dio; ma il mondo è transitorio, ed è per questo che abbiamo bisogno di Dio. In Lui si concentra tutto l’amore, e il mondo non è che una risonanza, un riflesso e una reazione. Nulla esiste senza Dio. Dovrebbe essere questo il nostro modo di vedere e noi dovremmo coltivare l’amore.
Nel mondo c’è tutto, ma il male occulta il bene che vi si trova. Perciò vediamo Krishna che esorta il fragile, sciocco Ârjuna per svegliarlo dal suo sonno di ignoranza sul campo di battaglia di Kurukshetra: «Sorgi, o Dhananjaya (Ârjuna). Forti sono i destini. Vincerà la giustizia e l’egoismo andrà distrutto. Questa è la legge di tutte le ere. Comprendilo. Il re dai cento figli non ne avrà neppure uno per celebrare i suoi ultimi riti. Che destino l’attende!». Così Krishna predisse il futuro e disse ad Ârjuna di aver fede in Lui. Gli disse anche che Egli si sarebbe preso cura di tutto il resto.
Allora Ârjuna rispose: «Obbedirò ai Tuoi comandi». E Krishna: «Adesso sei mio devoto». Fino a quel momento, infatti, Ârjuna pensò ai suoi parenti; e questa è bhukti (pensare agli agi della vita), non bhakti (devozione a Dio). «Un clan che sta sempre più deteriorandosi nella vecchiaia sta per essere estinto – continuò Krishna alludendo ai Kaurava –; anche Kama, che si è aggregato a loro, e Shakuni, che ha fatto indagini su di loro, saranno distrutti. Ci saranno incendi e una pioggia di frecce. È il solo modo per avere pace nel mondo. Ordunque, Ârjuna, alzati!».
Anche il Vedânta proclama: «Sorgi! Sveglia! Non arrestarti finché non sia stata raggiunta la meta». Non sonnecchiate nell’ignoranza, nell’orgoglio dell’“io” o nella bramosia del “mio”. Sorgete e svegliatevi all’alba della saggezza: è Dio che lo insegna.
Quindi, dovete tutti impegnarvi a fare del bene, a credere che Dio risiede in tutto e ad amare tutti. Chiunque possa aiutare, è Swami che stai servendo, perché tutte le azioni sono per Dio. Solamente quando avrai questo modo di sentire, Dio sarà con te. Dio è con te, e tu sei in Dio. Fra te e Dio non c’è differenza. Questa unità è tutto. L’unità può essere sperimentata solo pensando a Dio. Pensate dunque a Dio; fate del servizio e aprite sempre più la vostra mente, in modo da ritenere che tutto ciò che fate per gli altri, lo fate a Dio.
(Baba conclude il discorso col canto “Govinda Krishna Jai”)
Prashanti Nilayam, 18 Agosto 1995.
Janmâshthamî.
da: Mother Sai n. 6/95